Il difficile compito degli uomini di buona volontà

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Il D-Day nell'iconica foto di Robert Capa

di Ivanoe Pellerin

Cari amici vicini e lontani, governanti, opinion leaders, storici, giornalisti e scrittori, insomma tutti quanti hanno celebrato “giustamente” lo sbarco in Normandia. Alcuni, fra i quali l’ottimo Rampini dai fogli del corrierone, hanno sottolineato il ruolo dell’America di Roosevelt che, avendo subito “solo” l’attacco giapponese a Pearl Harbour, mandò i suoi giovani americani sul suolo europeo per affermare i valori della democrazia e combattere la dittatura nazista. Una generazione che pagò un prezzo altissimo: nel primo giorno dello sbarco più di 8.000 tra caduti e feriti. Un macello. Non dobbiamo scordare che insieme agli Stati Uniti truppe di altri paesi parteciparono all’invasione: Gran Bretagna, Canada, Australia, Polonia, persino la Francia, una brigata ebraica e tanti altri.

Certamente fu un grande azzardo sul piano militare e strategico, un esempio di strategia fortunata ma anche la grande dimostrazione della volontà e del convincimento da parte della maggioranza dei governi e dei popoli europei che “Gli aggressori devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione.” (come disse molti anni dopo la prima ministra britannica, Margaret Thatcher).

Fu vera gloria? Io credo di sì. Ma credo anche che, nonostante il successivo piano Marshall che contribuì alla ricostruzione dei paesi distrutti dalla guerra, ci siamo un po’ dimenticati che negli anni successivi, sempre a seguito dell’indiscussa egemonia USA, si manifestarono in molti paesi le libertà politiche e la democrazia prosperò. Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Li ricordo rapidamente: il diritto alla vita, il diritto alla libertà individuale, il diritto all’autodeterminazione, il diritto a un giusto processo, il diritto ad un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà religiosa. Non poca cosa.

Mentre ad est, per intenderci dalle parti del blocco sovietico, si consumavano tragedie come la repressione sanguinosa da parte delle truppe di Mosca del maresciallo Konev della rivoluzione ungherese tra la fine di ottobre e i primi di novembre del 1956, la costruzione del “muro di Berlino” avviata intorno al 20 novembre 1961, la crisi dei missili a Cuba tra l’ottobre e il novembre 1962, uno dei momenti più critici della “guerra fredda”, l’invasione della Cecoslovacchia il 20 agosto 1968 da parte degli eserciti di quattro paesi del Patto di Varsavia, URSS, Bulgaria, Polonia e Ungheria, che mise fine al quella che gli storici chiamano “la primavera di Praga”, anche a ovest le faccende furono certamente difficili.

Mi riferisco alla guerra di Corea che pochi ricordano. Il dittatore Kim Il-Sung scatenò l’esercito nordcoreano al di là del 38° parallelo (un confine politico accettato dai due paesi sotto l’egida dell’ONU) il 25 giugno 1950. Meglio preparato e meglio armato arrivò rapidamente alle porte di Seul, la capitale del Sud. Sotto la guida del generale Douglas MacArthur le truppe dell’ONU riuscirono a rallentare l’avanzata nordcoreana fino a bloccarla del tutto e poi presero l’iniziativa con una controffensiva lanciata il 25 settembre, che in breve risalì fino al 38º parallelo e poi penetrò profondamente nel territorio del nord. Mentre l’Unione Sovietica si limitò ad appoggiare logisticamente il governo della Corea comunista, la Cina di Mao intervenne con circa 180.000 militari che ricacciarono le truppe di Mac Arthur al di là del famoso 38° parallelo.

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Ivanoe Pellerin

Alla fine furono circa 300.000 i soldati cinesi che parteciparono al conflitto, formalmente volontari ma di fatto reparti regolari. Con una audace strategia gli americani ripresero il controllo della guerra e arrivarono a minacciare la capitale Pyongyang. All’inizio del 1951 il presidente statunitense Harry S. Truman, che fino ad allora aveva appoggiato la conduzione della campagna militare da parte di Douglas MacArthur, temendo l’allargamento del conflitto in territorio cinese e stanco delle critiche rivoltegli dal generale, preferì sostituirlo, l’11 aprile, con il più moderato Matthew B. Ridgway. Non fu un’idea felice. La guerra assunse un ritmo diverso, vi furono attacchi e contrattacchi che, di fatto, stabilizzarono il conflitto. Come sempre, la guerra si rivelò dispendiosa in termini economici e di vite umane e inflisse incredibili sofferenze al popolo coreano. Sin dal 1951 le due parti avviarono trattative per giungere a un armistizio. Bisognò attendere il 27 luglio 1953 perché un accordo fosse finalmente raggiunto. L’armistizio venne firmato a Panmunjon ma non fu un vero e proprio accordo di pace. Fu vera gloria? No, credo proprio di no.

Infatti dopo la guerra, in Corea del Nord si è consolidò una dittatura totalitaria, guidata della famiglia Kim. A Kim Il-Sung, morto nel 1994, sono succeduti il figlio Kim Jong-Il fino al 2011 e a questi l’attuale dittatore, Kim Jong-Un, che ama giocare con i missili.

Il disastro militare e sociale della guerra del Vietnam, iniziata di fatto da Kennedy negli anni ’60 e terminata di fatto da Nixon con gli accordi di Pace di Parigi nel 1973 e la caduta di Saigon da parte dell’esercito del Vietnam del Nord nel 1975, mutò sostanzialmente la politica americana e dimostrò come l’opinione pubblica potesse influenzare pesantemente la guida della Nazione. Occorse poi aspettare la presidenza di Ronald Reagan per veder risollevare la politica USA e vedere la spinta di ottimismo, di pragmatismo e di modernizzazione che questo presidente seppe imprimere agli Stati Uniti. Altri drammatici avvenimenti erano all’orizzonte.

Tralascio avvenimenti bellici come l’invasione dell’isola di Grenada nei Caraibi voluta da Reagan e la guerra delle Falkland voluta dalla Thatcher. La prima guerra del Golfo (2 agosto 1990 – 28 febbraio 1991) si proponeva di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait, dopo che questo era stato invaso e annesso dall’Iraq. Vi ricorda qualcosa questa situazione? Poi ancora la “seconda guerra del golfo”, un conflitto bellico iniziato il 20 marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America e terminato il 18 dicembre 2011 col passaggio definitivo di tutti i poteri alle autorità irachene. E ancora. La sconfortante guerra in Afghanistan, iniziata con baldanza nell’ottobre 2001 e terminata in modo tragico con l’abbandono del paese il 15 e 16 agosto 2021. Molti ricordano le immagini tristi e crudeli dell’aeroporto di Kabul in preda al panico. In questo caso non si parla di gloria ma di vergogna e di disonore.

Vuol dire che l’occidente ha sbagliato tutto? Ha sbagliato molto, non sempre con “buone” intenzioni. Oggi è evidente che il nostro mondo è scosso da soprassalti di ansia, di preoccupazioni e di “sensi di colpa”. Se si può affermare con tranquillità che democrazia, libertà e diritti umani non possono essere esportati, si può dire che la loro affermazione e la loro difesa è il difficile compito di tutti gli uomini di buona volontà.

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