L’Arabia Saudita, un’incognita nel groviglio mediorientale

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Il principe Mohammad bin Salman

di Ivanoe Pellerin

Cari amici vicini e lontani, con un tempismo tutt’altro che casuale, considerando che Hamas è un gruppo terroristico che da solo non avrebbe potuto accedere alle risorse necessarie per realizzare l’attacco del 7 ottobre ’23, l’aggressione e l’inevitabile risposta militare d’Israele hanno inevitabilmente messo in crisi gli accordi di Abramo tenacemente voluti dagli USA. Molti studiosi di faccende mediorientali vedono in questo atto la lunga mano di altri attori internazionali, fra i quali con più evidenza c’è l’Iran.

Di fatto gli Accordi di Abramo sono entrati in crisi e l’Arabia Saudita è in grave difficoltà poiché, se scegliesse di congelare il percorso di normalizzazione con Israele, c’è un progetto che più di tutti ne soffrirebbe. È il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), appena lanciato nel settembre 2023 al G20 di New Delhi. Il Corridoio, fortemente voluto anche dal premier indiano Narendra Modi, è la risposta statunitense alla Via della Seta cinese e si presenta come un network ferroviario, portuale, di infrastrutture energetiche e cavi (elettrici e di dati) che collegherebbe l’India agli Emirati e all’Arabia Saudita per congiungersi, tramite la Giordania e Israele, all’Europa meridionale. Un’iniziativa ambiziosa che consentirebbe all’Arabia Saudita di competere con gli Emirati Arabi, fin qui avvantaggiati come hub regionale anche dalla firma degli Accordi di Abramo. Con la guerra tra Hamas e Israele, il destino del Corridoio diventa incerto: di fronte a un imprevedibile conflitto ancora privo di confini geografici definiti, qualunque ipotesi è ora prematura.

Inoltre gli accordi prevedono la garanzia che gli americani intervengano in loro difesa se fossero attaccati e l’assistenza per sviluppare l’energia atomica. Così è evidente che Riad spera di ottenere la qualifica di “major non Nato ally”, già concessa proprio a Israele, Qatar, Giordania, e altri Paesi, che impegna Washington a difenderli in caso di attacco. Inoltre l’Arabia Saudita è decisa a costruirsi un futuro diverso rispetto ai combustibili fossili e afferma di volere un programma nucleare civile per produrre energia. Non poca cosa.

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Ivanoe Pellerin

Di fronte agli eventi che irrompono giornalmente sulla scena mediorientale, il principe Mohammed bin Salman ha di fronte a sé due problemi: il primo comporterebbe l’annullamento di un processo già avviato e più volte sostenuto che mostrerebbe l’immagine di una leadership debole sia all’interno sia all’esterno del paese. Il costo di questa debolezza sarebbe enorme per un governante che si vuole porre come leader regionale e che ha avviato una serie di riforme non solo economiche ma anche sociali. Il secondo: Mbs vuole scardinare l’identità saudita dalla scuola islamica wahabita e avviarla verso un Islam più moderato. Dunque la necessità di MbS di proseguire con la laicizzazione in corso che mira a ridurre i poteri del clero islamico, a liberalizzare i costumi e a migliorare i diritti delle donne, è davvero vitale. I vantaggi in termini di presenza regionale sarebbero notevoli soprattutto poiché all’orizzonte rimane sempre minacciosa la cupa ombra dell’Iran.

Tra Washington e la casa regnante dei Saud c’è da molto tempo un’intesa molto forte nonostante gli alti e i bassi dei governi USA. Biden e soprattutto Burns, esperto direttore della Cia e diplomatico di lungo corso, vorrebbero stabilizzare la regione a partire dal conflitto più o meno aperto tra Israele e Iran sempre più alimentato dal lancio dei razzi verso Israele da parte di Hezbollah nel sud del Libano. Sull’altro fronte elettorale, in caso di vittoria, Trump partirebbe dagli accordi di Abramo per perseguire comunque la stessa intenzione dell’attuale presidente USA anche se gli accordi sauditi con Pechino in ragione degli enormi consumi di gas e petrolio dell’economia cinese accendono qualche preoccupazione.

Però non bisogna cedere alla tentazione di accreditare il governo saudita all’interno del blocco autoritario euroasiatico con Russia e Cina. I “flirt” di MbS con il governo cinese sono da considerarsi come l’aspetto economico-politico delle richieste del gigante asiatico di fronte alle imponenti necessità di energia, di fatto un interesse condiviso. Per l’Arabia Saudita il bisogno di protezione nei confronti del vicino sciita è sempre al primo posto. La strage di Hamas e la conseguente risposta militare israeliana non ne ha attenuato l’esigenza. Anzi, caso mai l’ha aumentata. La prova è proprio la continua richiesta di tecnologia nucleare. Si badi bene: si scrive nucleare civile ma si legge militare. Quindi risulta con evidenza che il nucleare viene interpretato sia come la polizza d’assicurazione nei confronti dell’Iran sia come un importante sostegno al potere di Mohammed bin Salman.

L’elemento variabile in questa visione del mondo è proprio Israele. Mentre un tempo appariva un elemento di sicurezza, oggi questo aspetto si è un po’ appannato a causa di un protrarsi del conflitto che non ha portato alla dissoluzione di Hamas. E l’attuale contrasto tra i vertici militari dell’esercito israeliano ed il governo di Bibi Netanyahu ne è una prova evidente. Il portavoce militare, il contrammiraglio dell’Israel Defense Force, Daniel Hagari, 48 anni, una carriera folgorante, molte missioni in Libano, a Gaza, insomma dappertutto in quel mondo infuocato, è stato chiarissimo: “Hamas è una ideologia. Se non offriamo un’alternativa, alla fine avremo solo Hamas.”

Cari amici vicini e lontani, come potete constatare il groviglio mediorientale è davvero difficile da decifrare. Molti sono gli attori principali e forse non sono solo quelli che appaiono con più evidenza. Non solo le ragioni militari ma anche quelle politiche e religiose giocano ruoli molto importanti su diversi tavoli, in modi diversi e in tempi diversi. Di sicuro l’Arabia Saudita appare poco ma conta molto.

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