VISTO&RIVISTO Una moto fiammante e lucida, ma senza benzina

minchella visto rivisto

di Andrea Minchella

VISTO

THE BIKERIDERS, di Jeff Nichols (Stati Uniti 2023, 116 min.).

Un inizio entusiasmante. Serrato e ritmato. Con una grammatica semi documentarista che catapulta lo spettatore in una faccenda poco conosciuta ma di cui subito ci si appassiona per la chiara ed essenziale capacità descrittiva del giovane Jeff Nichols. Il montaggio delle prime sequenze rinvigorisce una storia apparentemente solo di moto e di ragazzi ai margini di un’America carica di sogni e di speranza. In realtà Nichols filma, monta e musica, egregiamente, la nascita di un movimento che diventa presto fenomenologia della cultura di massa americana. Le moto negli anni sessanta diventano l’unico strumento di libertà ed emancipazione per tutti quei ragazzi che “nemmeno il Vietnam ha voluto”. Lo spirito di appartenenza e i motori si trasformano in un cordone ombelicale che tiene uniti i ragazzi della Chicago povera che hanno poco da perdere e tanto da guadagnare.

Il film, dunque, parte con una accelerata dirompente cristallizzando in maniera forse troppo didascalica tutti i personaggi della vicenda. Dopo una mezzora circa, però, il film rallenta come quando lasci l’acceleratore di una moto e aspetti che il freno motore faccia il suo lavoro. Ad un certo punto la narrazione si dilata esageratamente ristagnando in un’auto evoluzione narrativa che fornisce pochi spiragli. La vicenda potentemente iconografica si sfilaccia quando i personaggi prendono il posto della narrazione collettiva dell’inizio. A questo punto le criticità della pellicola emergono tutte insieme disorientando lo spettatore. Ci accorgiamo, infatti, che Austin Butler porta addosso ancora le sembianze oniriche dell’Elvis di Baz Luhrmann. Notiamo che Tom Hardy, per quanto dannatamente deturpato, sembra un modello che stona con l’ambiente putrido in cui vive nel film. Ogni personaggio secondario diventa una ruota perfettamente oliata di una storia “sporca” raccontata, però, con i guanti. Il film diventa un tranquillizzante racconto di una serie di fatti trucidi e grezzi.

Nichols, dopo un inizio perfettamente costruito, si rifugia dietro una narrazione convenzionale che perde l’occasione di rimanere efficace per tutta la durata del film. La figura quasi mitologica di Johnny, il camionista che fonda il club motociclistico “Vandals”, rimane intrappolato nelle smorfie affascinanti e dimesse del bravissimo Tom Hardy. Johnny, stregato dall’interpretazione di Brando ne “Il Selvaggio”, decide di radunare gli emarginati del suo quartiere attorno alla passione sfrenata delle moto, delle birre e delle risse. Quell’idea diventa presto un gruppo distinto e inedito che viene man mano preso d’esempio in altre parti del paese. In poco tempo la filosofia dei “Vandals” si allarga a macchia d’olio dando vita a numerosi club che facevano comunque capo al fondatore Johnny che vorrebbe Benny come suo possibile successore. Ma Benny, sposato con Kathy, è troppo grezzo e dissennato per ricoprire quel ruolo.

La struttura narrativa si poggia sull’intervista alla moglie di Benny da parte del fotografo Danny che intende realizzare un libro fotografico sui “Vandals”, dalle origini fino a quando, diversi anni dopo, Johnny non c’è più e il club, preso in mano dai giovanissimi, è diventato solo una copertura di crimini e malaffari. Ora Benny e la moglie vivono in Florida, lontani dal club e dalle moto che, nella testa del bello e ormai mansueto Benny, risuonano spesso come una mandria di bisonti scalpitanti.

Una nota di merito sicuramente va espressa per la musica che accompagna le quasi due ore del film. Come nel leggendario “Easy Rider” anche qui la musica dell’America di quegli anni riesce a rendere tridimensionale una narrazione spesso appiattita dalla predominanza di dinamiche drammaturgiche troppo semplificate. La colonna sonora diventa qui una preziosa e travolgente risorsa che cristallizza in maniera efficace alcune immagini suggestive ed evocative.

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RIVISTO

EASY RIDER, di Dennis Hopper (Stati Uniti 1969, 94 min.).

Dennis Hopper realizza, suo malgrado, una pietra miliare del cinema e della cultura “pop” degli anni settanta. Una storia di libertà e ideali che si incastona nell’America incandescente degli anni settanta. Le moto, anzi i “chopper” diventano i cavalli di un “western” contemporaneo e potentemente iconografico. Da rivedere e, soprattutto, da riascoltare.

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